Immagini dal Sannio: lo storico eccidio dei Savoia a Pontelandolfo e Casalduni

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Briganti italiani comandati da Cosimo Giordano, foto di copertina di autore sconosciuto, archivio SOMS di Cerreto Sannita 

“Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava… Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava”.

Solo cinque mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia, in diversi i territori che appartenevano all’ormai ex Regno delle Due Sicilie si verificavano costantemente casi di resistenza di matrice filoborbonica contro il neonato Stato Sabaudo. Rivolte e piccole o grandi forme di protesta, atti rivoluzionari in cui si alzavano polvere e grida. Cittadini o militari erano i protagonisti di tali episodi. Molti di loro manifestavano scontentezza perché erano convinti che con l’Italia unita ci sarebbero state migliorie che in realtà non arrivarono mai. È noto che, durante il processo di unificazione dell’Italia, la maggior parte degli stati, fra cui anche il Regno delle due Sicilie, manifestò la volontà di affiancare Vittorio Emanuele e il Regno Sabaudo, piuttosto che il democratico Giuseppe Garibaldi, perché quell’unione dava più certezze e rassicurazioni. I cittadini, infatti, si sentivano più protetti e garantiti dallo Stato di Piemonte che da uno di matrice più democratica. La vita, specie dei contadini, non migliorò affatto e, proprio a causa di tale scontentezza, vennero a formarsi diverse bande di brigantaggio, specie nel centro-sud Italia. Uno di tali episodi di scontentezza e dissenso si verificò il 7 agosto 1861 quando circa 50 componenti della brigata Fra Diavolo, capeggiati da Cosimo Giordano, ex sergente di Francesco II di Borbone, occuparono i paesi di Pontelandolfo e Casalduni, nella piccola provincia di Benevento, entroterra sannita a sud del Matese, issando la bandiera borbonica e proclamando un governo provvisorio. 

“I popolani suonarono le campane a stormo, abbattettero le croci sabaude, stracciarono le bandiere, alzarono l’insegna del Borbone, arsero gli archivii del giudicato, aprirono le carceri del Comune, e si bruttarono di tre omicidii. L’esempio di Pontelandolfo fu imitato da Casalduni, ove si gridò: viva Francesco e Sofia, si fecero sventolare le bandiere bianche da tutte le case, e i rivoltosi ridussero a pezzi le immagini di Vittorio Emanuele e di Garibaldi, e gli stemmi sabaudi, sostituendo ad essi quelli dei Borboni”. (Enrico Isernia, Istoria della città di Benevento). Passarono pochi giorni e un gruppo composto da quaranta soldati e quattro carabinieri ricevette l’incarico, da parte del governo centrale, di effettuare una ricognizione per appurare la portata della sommossa. Appena giunsero alle porte dei due paesini beneventani, questi furono catturati dai briganti coadiuvati dalle popolazioni del posto. Un solo destino li attendeva, diverso da quello che si erano prefissati: la morte. La notizia arrivò subito al Generale Enrico Cialdini che pretese immediatamente vendetta: “Li voglio tutti morti! Sono tutti contadini e nemici dei Savoia, nemici del Piemonte, dei bersaglieri e del mondo. Morte ai cafoni, morte a questi terroni figli di puttana, non voglio testimoni, diremo che sono stati i briganti”. Parole forti, cariche di odio e di vendetta, piene di rabbia verso popolazioni che avevano puntato talmente in alto da arrivare ad assassinare i soldati del Regno d’Italia, a cui seguì un vero e proprio eccidio. “Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra”, fu l’ordine del generale Enrico Cialdini rivolto al colonnello Pier Eleonoro Negri e al maggiore Melegari, che erano a capo di due reparti dell’esercito rispettivamente diretti nei due paesi. 

Casalduni fu trovata in stato di quasi totale desertificazione, poiché i cittadini ebbero tempo di organizzarsi per poter scappare. Infatti, erano stati avvertiti in tempo della rappresaglia in corso. Pontelandolfo, invece, fu vittima di una sorte più inclemente, un destino triste e violento che si abbatté sulla sua gente colpita nel cuore della notte, sorpresa nel sonno, con il saccheggio, la distruzione e l’incendio di case e chiese, oltre alla fucilazione di tante persone. Stupri, atti di violenza, percosse e tantissime donne uccise. Anche i bambini furono vittime di tanta strage e follia, molti di loro furono arsi vivi in quelle case da loro ritenute sicure, ma che invece andavano in fiamme, senza sosta alcuna. I due paesi furono interamente rasi al suolo, proprio come da ordine del generale Cialdini. Non si conosce il numero esatto dei caduti, tante cifre, tante ipotesi, numeri che si alternano nei libri di storia e che si sovrappongono gli uni agli altri: qualcuno parla di 400 vittime, qualcuno addirittura di 1.000 morti.

Raffigurazione tratta da napoli.carpediem.cd

Dopo i fatti di Pontelandolfo e Casalduni ebbero termine le sollevazioni reazionarie, ma nel territorio sannita continuò l’attività brigantesca rivolta al saccheggio e alla rapina: venivano tagliate linee telegrafiche e strade di comunicazione e si uccideva chi opponeva resistenza. Dopo alcuni mesi, il brigante Michele Caruso seminò morte e distruzione finché fu tradito e fucilato sul largo di Porta Rufina a Benevento. Con la sua morte, il brigantaggio ebbe un rapido e inesorabile declino cui seguì un miglioramento generale delle condizioni di vita nel Beneventano.

Nel 1920 Antonio Gramsci, sulla rivista Ordine Nuovo, scrisse: “Lo Stato italiano si è caratterizzato come una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”. Oggi c’è ancora chi nega l’eccidio, da doversi considerare una vera e propria guerra civile. I nuovi dominatori avevano agito sotto l’egida di Casa Savoia, addestrati e armati, e i briganti, vinti dai primi, fino alla fine resistettero, senza piegarsi di fronte all’arroganza dei piemontesi, fedeli fino alla morte ai loro ideali e al loro credo di libertà e giustizia. Tantissimi anni dopo, il 14 agosto 2011, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, ha fatto pervenire le scuse ufficiali dello Stato Italiano, facendo porre una lapide nei luoghi della strage: “A nome del presidente della Repubblica Italiana vi chiedo scusa per quanto qui è successo e che è stato relegato ai margini dei libri di scuola”. E questa tristissima pagina di storia non dimentichiamola. Mai.

Fonti: Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento, Torino, UTET, 2004; Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento, Napoli, Guida, 2000; Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale, Editori Riuniti, 2005; Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud; wikipedia.org.









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